Tra i  figli d’Irpinia  che hanno dato maggior lustro alla Marina Militare( di cui l’Italia tutta va fiera)  troviamo:

  • Ammiraglio di Squadra Salvatore PELOSI decorato di O.V. M.
  • Contrammiraglio Gregorio RONCA decorato di Medaglia d’Oro per Meriti Scientifici
  • Capitano di Vascello Stanislao ESPOSITO decorato di M.O.V.M. alla memoria
  • Capitano di Corvetta Saverio MAROTTA decorato di M.O.V.M. alla memoria
  • Sottotenente di Vascello Alessio De VITO decorato di M.O.V.M.
  • Tenente di Vasello Bartolomeo LA PENNA- Comandante del Sommergibile “SMERALDO
  • C° 3^ Cl Torp. Sil. Arturo VIETRI decorato di M.A.V.M.

AMMIRAGLIO DI SQUADRA SALVATORE PELOSI

Sommergibilista – Decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare

Salvatore Alfonso Nicola PELOSI, di Silvio e di Adelina GIANNETTI, nasce a Montella (AV) il 10 aprile 1906. Dopo le elementari e gli studi classici , nel 1921 entra nell’Accademia Navale di Livorno. Nel 1926 consegue la nomina a Guardiamarina e si imbarca sulla nave da battaglia “CAIO DUILIO”. Con l’incrociatore “LIBIA” parte per una missione nell’Estremo Oriente.  Tra il 1928 ed il 1930 lo troviamo a Tientsin, in Cina, presso il distaccamento della Marina e poi presso il Battaglione  “SAN MARCO” dislocato a Chinhgwantau.

Rientrato in Italia segue il classico iter degli Ufficiali di Marina con imbarchi su svariate unità navali. Partecipa al conflitto Italo-Etiopico tra l’ottobre del 1935 e maggio 1936 imbarcato sull’incrociatore “GORIZIA”. Partecipa alla guerra civile spagnola al comando di una torpediniera tra 1936 1938.

Nel 1938 viene promosso Capitano di Corvetta. Nell’aprile 1939, assume il comando del sommergibile “TORRICELLI” , della 41.ma squadriglia sommergibili in Africa Orientale Italiana, dislocata a Massaua fin dal 1935.

            E da là che il 19 giugno 1940, dalla base di Massaua , parte per la  sua prima missione di guerra il sommergibile , al suo comando. Il Battello, come qualche volta accadeva, non è nel massimo assetto; ha qualche deficienza di tenuta, ma all’ordine lascia gli ormeggi e prende il mare.

            Il “TORRICELLI” , incontra il nemico alle ore 04:30 del 23 giugno, (si tratta di una silurante da 1000tonnellate). Il battello si immerge, si disimpegna 60 metri di profondità, una scarica di piccole bombe fa eco intorno all’unità italiana , ma tutto qui, la nave attaccante si allontana immediatamente.

Il “TORRICELLI “ riemerge e fra l’altro  il Comandante si accorge di perdere nafta, decide di portarsi ad Assab ( Navigando in superficie) per le necessarie riparazioni.

La silurante inglese però, fa ritorno sulla sua scia, in compagnia di una unità della medesima classe e tre caccia di tipo nuovissimo da 1600 tonnellate , armati ognuno con 6 cannoni da 120, e molte mitragliere da 40.

La decisione del Comandante Pelosi è rapida: impossibile sfuggire con la rapida immersione, la perdita di nafta ne farebbe individuare l’esatta posizione, non rimane altra via che quella di battersi.

Il “TORRICELLI” apre per primo il fuoco col suo unico pezzo da 100,procedendo con rotta zig-zagante il battello si porta a distanza di lancio. Lancia 4 siluri di poppa che non vanno a bersaglio perché le ottime condizione del mare ne mostrano nitide le scie, per cui fu facile schivarli. Nel frattempo però , il cannone del “TORRICELLI” ha causato i suoi danni, sono state colpite due unità , una molto seriamente, tanto che mentre era rimorchiata, all’altezza di Perim, affonda.

Anche il “TORRICELLI” è colpito molto duramente dall’intenso fuoco nemico che si era portato molto vicino, tanto che apre il fuoco con le mitragliere.

Il Comandante Pelosi , vistasi preclusa ogni via di scampo, per evitarne la cattura ,autoaffonda il sommergibile, dopo aver messo in salvo l’equipaggio e Lui stesso fu obbligato dai suoi uomini a salvarsi.

Issato sul caccia inglese, all’equipaggio del “TORICELLI” sono resi gli onori militari, per il coraggio dimostrato nell’impari lotta.

A distanza di pochi giorni, l’equipaggio del “TORRICELLI” , in stato di prigionia, lascia il porto di Aden, diretto in India in compagnia dell’intero equipaggio della nave affondata dal “TORRICELLI”. Prima della partenza però il Comandante inglese delle Forze Navali di Aden vuole incontrarsi con l’equipaggio del sommergibile italiano e col suo Comandante al quale dice:

L’azione di Perim è stata molto valorosa da parte Vostra Comandante, ed io non la considero affatto una nostra vittoria, giacché non abbiamo saputo impedirvi di offenderci, né abbiamo saputo catturavi o affondarvi” 

Al suo rientro in Italia (1945) a questo puro figlio dell’Irpinia la Marina conferisce  la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:

“Comandante di sommergibile dislocato in acque lontane ed assediatissime , durante ardua missione svolta in condizioni ambientali oltremodo avverse, scoperto, scoperto e sottoposto a prolungata caccia da parte di numerose siluranti, visto impossibile il disimpegno, emergeva accettando il combattimento in evidenti condizione di inferiorità.

Aperto il fuoco con il cannone e con le mitragliere, si impegnava in epica lotta a distanza ravvicinata contro tre cacciatorpediniere e due cannoniere.

Lanciati anche i siluri, a corto di munizioni e con l’unità ripetutamente colpita ed egli stesso ferito, decideva di salvare i suoi marinai ed affondava il battello che scompariva con la bandiera a segno salutato alla voce del valoroso equipaggio.

Nell’impari lotta, il sommergibile affondava un Cacciatorpediniere ed infliggeva danni alle rimanti unità avversarie.

Trascinato in mare dai marinai che si erano rifiutati di abbandonarlo era da loro stessi sostenuto allorché, in seguito alla ferita riportata , aveva perduto i sensi.

Coloro ai quali Egli aveva indicato la via dell’onore e del dovere ridavano in tal modo alla Nazione ed alla Marina uno dei suoi figli migliori affinché a questi fosse ancora concesso di operare per il bene della Patria

Magnifico esempio di uomo e di Ufficiale al quale lo stesso nemico ha tributato ammirazione e rispetto “   Mar Rosso Meridionale 21-22-23-giugno 1940 (D.L.28.06.1945

Nel 1948 assume il comando del cacciatorpediniere “ALFREDO ORIANI” e viene promosso Capitano di Vascello. Dal 1949 al 1951 assume dapprima il Comando della Marina Militare in Somalia e subito dopo l’incarico di Capo di Stato Maggiore presso il Comando in Capo del Basso Tirreno.

Dal luglio 1954  è Capo di Stato Maggiore del Comando Militare Marittimo Autonomo in Sicilia .

Il 1° gennaio 1957 è promosso Contrammiraglio e, dopo aver frequentato il Centro Alti Studi Militari, assume l’incarico di Ispettore delle Scuole C.E.M.M. di La Maddalena e di Presidente della Commissione Ordinaria di Avanzamento con sede in Roma.

Nel Maggio 1961 viene promosso Ammiraglio di Divisione ed assume il comando del Gruppo Dragamine.

Dal 1962 al 1963 è alla guida del Comando Militare Marittimo Autonomo in Sicilia, con sede a Messina.

Nel 1964 è promosso Ammiraglio di Squadra e con tale grado ricopre la carica di Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo dell’Jonio e del Canale d’Otranto ricoprendo anche la carica di Presidente del Consiglio Superiore delle FF.AA. Sez. Marina.

L’11 aprile 1969 è collocato in ausiliaria per limiti di età. Dal 1969 al 1974 è Presidente dei Cantieri Navali di Taranto (Gruppo Fincantieri).

Il 21  ottobre1974 muore a seguito di un incidente automobilistico a Terranova di Sibari (CS)  

La Marina Militare, allo scopo di tramandare ai posteri la sua memoria, gli ha intitolato  sommergibile che, costruito nei Cantieri Navale di Monfalcone è stato impostato il 23 luglio 1986 , varato il 29 novembre 1986 e consegnato alla Marina Militare il 14.luglio 1987.

Il 9 settembre 2017. Il Gruppo ANMI di Avellino ed il Comune di Montella (AV) hanno organizzato una solenne cerimonia per deporre una lapide ricordo sulla casa nativa dell’eroe. Sono stati presenti , oltre ad una folta rappresentanza di sommergibilisti di Taranto e numerose Autorità civile e militari, anche il Comandante del Sommergibile “Salvatore PELOSI” ed il figlio Giancarlo. In tale occasione il Gruppo ANMI di Avellino ha dato alle stampe un opuscolo dove sono riportate, con dovizia di particolari, la vita e la descrizione dettagliata dell’azione di “PERIM” che valse al Comandante PELOSI la M.O.V.M., a cui si rimanda per acquisire ulteriori informazioni.

CONTRAMMIRAGLIO GREGORIO RONCA
Il navigatore-scienziato –decorato di Medaglia d’Oro per meriti scientifici  
ronca

Egli nacque a Solofra (Avellino) il 13.dicembre 1859 da Luigi (Sindaco di Solofra) e Giulia Cacciatori. Aveva  solo 14 anni quando resta  orfano di madre. Questo fatto è determinante per la sua formazione spirituale perché egli si legherà sia al padre che alla nonna paterna, figura questa non secondaria nella genesi di quegli ideali patriottici che lo guideranno nella vita.

Questa donna è Luisa Basile de Luna, che in seconde nozze aveva sposato Gregorio Ronca senior , padre di Luigi e nonno del Nostro eroe., Ella, dopo la morte del marito e della giovane moglie del figliastro, restò in casa Ronca per accudire ai quattro nipotini orfani a cui era affezionata. Era una donna forte e decisa che dette alla famiglia Ronca un’impronta indelebile.

Luisa Basile era cugina di Carlo PISACANE, l’eroe napoletano della spedizione di Sapri, con il quale la giovane era stata in stretto contatto negli anni della giovinezza. Erano vissuti entrambi nella Napoli dell’assolutismo borbonico, dominata, dopo i sussulti del 1799 ,da una nota di facile rassegnazione al nuovo ordine nato dal Congresso di Vienna.

La carriera militare di Gregorio non sarà solo il coronamento di nonna Luisa, ma una scelta di famiglia, che si allegherà anche al piccolo Alessandro che sarà Generale di Brigata nell’Esercito Italiano.

Aveva quindici anni , Gregorio, quando, “, giungeva a Napoli da Solofra accompagnato da una signora attempata tutto vestita di nero” per entrare nella Reale Scuola di Marina. Era il primo ottobre 1874, forte già dell’ammissione a pieni voti, Gregorio  entrava a far parte della prima classe dei cadetti di vascello per prendere imbarco, il giorno successivo, sulla nave scuola.

Nel 1879, terminò gli studi nella Regia Scuola con il grado di Guardiamarina e prese servizio sulla nave “Amedeo”. Gregorio RONCA era finalmente marinaio al servizio della sua Patria che affrontava i primi difficili problemi della sua nuova realtà.

Nel 1890 , con il grado di Guardiamarina, imbarcava sulla Regia Pirocorvetta “F. CARACCIOLO”  destinata a compiere la circumnavigazione del Globo. La circumnavigazione partì da Napoli il 27 novembre 1881 verso Gibilterra, poi sulla rotta del Capo Verde , giunsero a Rio de Janeiro il 26 gennaio 1882.   La regia  Nave “Caracciolo” attraversò il Canale di Suez, da poco nuova via di comunicazione per l’Oriente. Ed il 3 settembre 1884 fu in vista dell’Italia ; il 21 settembre 1884 arrivò a Venezia dove completò il viaggio durato 2 anni dieci mesi ed un giorno.

Durante questa campagna si distinse nel rilievo delle isole “Madri” in Patagonia, (Isolotti RONCA) e per la raccolta e conservazione degli animali della sezione ornitologica.   Nel porto uruguaiano Gregorio RONCA festeggiò la sua promozione a Sottotenente di vascello  il giorno 13 aprile 1882.

Terminato il lungo servizio sui mari del mondo il Nostro Marinaio  lascia  la “Caracciolo” e viene inviato Napoli  dove c’era il colera, la terribile pestilenza che era divampata nei primi di settembre del 1884.

Il Sottotenente di Vascello  RONCA ebbe l’incarico di organizzare gli aiuti alle popolazione della sua terra e pose il quartier generale nell’isola d’Ischia. La base fu visitata dal re Umberto I che sostò a lungo nell’isola partenopea riconoscendogli “una grande prova di abnegazione ed altruismo non comuni” .

Imbarcava quindi sulla corazzata “RUGGERO Di LAURIA” dove fu promosso Tenente di Vascello il 13 febbraio 1887 e destinato “Alle armi Subacquee ed ai Servizi Elettrici”.

Su questa Unità il RONCA realizzò il primo “telecomando” per il puntamento dei nuovi proiettori di luce a grande portata. Il “Proiettore Ronca manovrato a distanza fu adottato da tutte le navi da guerra , ma l’inventore rinunciò ai suoi diritti a favore della Regia Marina. Il congegno  permetteva di operare a distanza mettendo in moto un motore elettrico che  a sua volta guidava il movimento del proiettore: la manovra diventava così più agile , veloce  ed era di facile applicazione, inoltre prevedeva l’impiego di un sola persona. La Marina riconoscerà questa sua invenzione con un encomio nel 1893

Successivamente Egli passò studiare l’impiego delle navi in combattimento e sul finire degli anno ’80 veniva pubblicato il suo libro “Studio sulla Tattica Navale Moderna” che riscosse negli ambienti responsabili della Marina i più autorevoli consensi. Benedetto BRIN,  allora ministro, lo volle titolare di una cattedra nell’Accademia Navale da lui stesso fondata a Livorno  nel 1881 riunendo le due scuole di Marina di Napoli e di Genova.

Destinato all’Accademia Navale di Livorno il 1° novembre 1889 , come insegnante di “Artiglieria e Balistica”. Il RONCA fu così indotto a dedicarsi alla Balistica ed al Tiro Navale. Fu in quegli anni che Egli elaborò il suo “Nuovo Metodo di Integrazione della Traiettoria”, a chiave balistica in polemica sul piano scientifico con Francesco SIACCI, riportando una vittoria che fece epoca. Per i suoi studi  il RONCA meritò la nomina a “Cavaliere della Corona d’Italia” e la promozione a Capitano di Corvetta.

Sempre a Livorno durante l’insegnamento, Egli ideò, studiò teoricamente e sperimentò poi nelle acque di Livorno, al comando del Regio Incrociatore Torpediniere “TRIPOLI” quel nuovo metodo di Tiro Navale (detto “migliorato a salve”), che doveva rivoluzionare le forme d’impiego dei cannoni consentendo di raggiungere le massime distanze nel combattimento navale come mai si potesse sperare a quel tempo. Ma non fu impresa da poco; il RONCA dovette lottare contro mentalità arretrate, abbattere pregiudizi che risalivano al tempo della vela, rifiutare l’empirismo, elaborare una teoria e dettare nuove norme che avrebbero posto la potenza balistica della nave nelle mani del Comandante.

I trattati del RONCA sulla “Balistica Esterna” ed il “Manuale di Tiro” pubblicato nel 1901, sono due classici della materia, entrambi furono definiti dagli studiosi opere insigne; uniche del loro genere, furono  tradotte in più lingue. Divenne un pilastro della nuova scienza navale e adottato in tutte le Accademie Navali. I Giapponesi applicarono con successo a “Tsu-Shila” il metodo di Tiro del Comandante, come ebbe ad affermare lo stesso Ammiraglio TOGO; furono i nuovi criteri d’impiego dei cannoni a indurre la concezione tutta italiana della ”Nave da Battaglia Monocalibro” alla quale si attennero gl’inglesi nella costruzione della “Dreadnaught” , seguita poi dalla nostra “DANTE ALIGHIERI”.

Da Capitano di Fregata , Comandante in seconda dell’Incrociatore  “GARBALDI” , il Ronca ideò, propugnò ed iniziò nella nostra Marina Militare la Tradizione della “Preghiera” al tramonto in navigazione. Il testo della bella orazione fu dettato , per suo interessamento, dal grande scrittore contemporaneo Antonio FOGAZZARO (1902). Sia per la delicatezza delle immagini così care ai marinai, sia per il significato che essa dava alla missione dei marinai in armi, la preghiera fu adottata da tutte le navi ed entrò nel regolamento di servizio delle navi armate. Da allora , ogni sera al tramonto sulle navi in navigazione, a poppa intorno alla bandiera che viene ammainata, si riunisce tutto l’equipaggio, che, in piedi a capo scoperto ascolta dalla voce del più giovane Ufficiale l’invocazione religiosa voluta dal RONCA.

Al comando dell’incrociatore “DOGALI”, negli anni 1904-1905 il Comandante RONCA ,dopo aver visitato le Antille e le Guiane, risalì il Rio delle Amazzoni ed il suo affluente Maragnon giungendo sino a Santa Fé nel Perù a 3850 Km dal Mare., fra innumerevoli difficoltà di ogni genere: si trattò di un grande record. Il Prefetto di Iquitos volle battezzare “Isola Dogali” una terra disabitata con una lussureggiante vegetazione, al centro del fiume Maragnon  e tuttavia ancora non rilevata e sconosciuta.

Di questo viaggio, che iniziò nel febbraio del 1904 e terminò nel luglio del 1905 e che ebbe per meta le Antille, le Guiane e l’Amazzonia, a noi restano delle interessantissime “note particolari nel libro”  di cui lo stesso Ronca dice “sono mie impressioni e mie osservazioni, come le sentii sui luoghi come un qualsiasi viaggiatore”. Queste note non hanno nulla a che fare con i rapporti ufficiali che il Comandante doveva redigere, ma è chiaro che quel “viaggiatore” non è un uomo comune, che fa un viaggio di piacere. In tutto il libro ben si individua sia lo scienziato che il Comandante , ma sono costantemente presenti anche i compiti che gli erano stati affidati. Queste note ci hanno colpito perché sono uno straordinario documento storico di un’epoca e di certe situazioni, e ci sono piaciute per quelle “impressioni e osservazioni” dei luoghi visitati che fanno del libro, un diario di viaggio di straordinaria vivacità nella descrizione dei luoghi, nel racconto delle abitudini di vita delle popolazioni, nel ragionamento sostenuto con rigore ed agibilità non indifferenti.

Il resoconto di quel viaggio si rivelò così utile per le notizie etno-geografiche, economiche ,commerciali e nautiche  che conteneva che sia la Società Geografica Italiana che la Rivista Marittima lo pubblicarono, nel 1906, con il titolo “Dalle Antille alle Guaine all’Amazzonia”.

I risultati di questo libro furono esposti in due conferenze sia Roma che a Milano. Nella città lombarda Ronca parlò per tre ore dinanzi a tremila persone , tra cui Guglielmo Marconi, che si congratulò con lui “ per l’immensa utilità e per l’importanza degli argomenti trattati”.

Promosso Capitano di Vascello , il Comandante RONCA fu messo a capo di un apposito Ufficio Studi presso lo Stato Maggiore affinché Egli potesse elaborare le direttive per la “Scuola di Tiro” da lui stesso concepita e propugnata. Una tale Scuola , destinata a formare i “Direttori di Tiro”, doveva essere istituita a bordo di una corazzata e così fu scelta laSARDEGNA”. A comandarla fu chiamato il suo stesso fondatore, cosicché sin dai primi anni di esercizio metodi di condotta e la nuova teoria del tiro navale furono ulteriormente perfezionati e così pure la strumentazione indispensabile per la centralizzazione dei tiri. I Trasmettitori “Regia Marina “, “l’alzo-comando a distanza” furono oggetto di nuove inventive del RONCA, il quale , come sempre rinunciò ai sui diritti a favore della Marina.

Per molti anni in Marina si parlò delle memorabili serie di tiro eseguite dalla “SARDEGNA” alla presenza del Re.

Ma l’attività della “SARDEGNA” si espletò anche nel campo marinaresco e precisamente fu effettuato lo storico rimorchio della “DANTE ALIGHIERI” da Castellammare di Stabia a La Spezia ed il salvataggio della nave germanica “Hoenzollen” incagliata al largo della costa sarda, con a bordo von Tirpiz.

Quegli anni di Comando della “SARDEGNA”, a seguito della promozione, furono anche gli ultimi di una vita operosa dedicata al servizio della Patria; era già stata decretata la sua promozione ad Ammiraglio per meriti eccezionali, quando Gregorio RONCA si ammalò gravemente. In Germania , dove si recò perché specialisti potessero diagnosticare il male , il medico sentenziò che non si poteva sperare nelle guarigione , e che gli rimanevano pochi mesi di vita.

Sbarcato dalla “SARDEGNA” a seguito della promozione, RONCA si chiude in un dignitoso riserbo; conscio del crudele destino, si ritirò a Napoli e dedicò i suoi ultimi giorni alla stesura di norme aggiornate di impiego delle artiglierie navali, per assolvere ad un suo impegno con il Ministero. Ma ancor prima della infausta prognosi del medico tedesco, si spense il 18 agosto 1911, improvvisamente. La marina tributò a Lui solenni onoranze!

L’Ammiraglio RONCA , già medaglia d’oro per meriti scientifici, era stato insignito, al pari di Benedetto BRIN , di Luigi di SAVOIA e di Guglielmo MARCONI dell’altissima onorificenza “dell’Ordine di Savoia” ; il Re intendeva conferirgli anche un titolo nobiliare.

Alla Sua Memoria la Marina volle erigere un busto di bronzo a La Spezia ed intitolò a suo nome il “Balipedio di Viareggio”. La città di Solofra intitolò al Suo nome la strada principale; una strada fu intitolata ad Avellino ed una anche nella Capitale

Gregorio RONCA fu uomo di elette, preclari virtù; ad un impegno non comune, sostenuto dalla innata vocazione per i nobili ideali, univa le più belle doti di carattere temprato nell’austerità dell’ambiente navale del Suo tempo e dalla educazione militare  di antica scuola , nonché da una indomabile volontà.

Nella vita privata fu sempre di una modestia e buono sempre con tutti. Fu di un altruismo che si poteva definire solamente evangelico. Egli fece della Sua professione un apostolato.

Al suo ricordo, l’Irpinia tutta si inchina.

 

A ricordo dell’epica impresa della Regia nave “DOGALI” la città di Solofra lo ha ricordato anche con queste lapidi

CAPITANO DI VASCELLO STANISLAO ESPOSITO
Comandante dell’Incrociatore “TRIESTE” decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria  
stanislao-esposito

Stanislao ESPOSITO, figlio di Vincenzo e di Elisa PICIOCCHI, nacque ad Avellino il 15 ottobre 1898. Entrò quindicenne nell’Accademia Navale di Livorno nel 1913. Il 1° ottobre 1917 lasciò l’Accademia Navale con il grado di Guardiamarina nel Corpo dello Stato Maggiore della Regia Marina.

Conseguì la nomina a Sottotenente di Vascello il 1° ottobre 1918 e quella a Tenente di Vascello il 18 dicembre 1921. Partecipò alla I Guerra Mondiale stando imbarcato successivamente sulle navi “Caio DUILIO” e “ Giulio CESARE”, quindi sul cacciatorpediniere “POERIO”, con i quale partecipò alle operazioni militari  in Albania  nel 1920.

Dal luglio del 1929 al marzo del 1930 assunse il Comando del l°Reparto Tecnico Armi ed Armamenti Navali di Venezia. Promosso Capitano di Corvetta , dal 1° aprile al 27 maggio 1930 assunse la Direzione dell’Ufficio Tecnico del Genio Navale di Fiume. Il 3 luglio dello stesso anno fu destinato sul “DORIA” in qualità di Direttore del Tiro.

L’11 luglio del 1931, a Venezia, sposò la Sig.na Maria Giuseppina MASSA.

Il 10 settembre 1932 ebbe il Comando del sommergibile “SETTEMBRINI”.

Promosso Capitano di Fregata (!16 agosto 1935), fu destinato sull’Incrociatore “BARI”, con l’incarico di Comandante in seconda,  con cui partecipò al conflitto Italo-Etiopico (1935-1936).

Promosso Capitano di Vascello (8 novembre 1940) dal 26 maggio 1940 ebbe prima il comando di una squadriglia di Cacciatorpediniere , con l’insegna sul “DA RECCO”, e poi -il 21 aprile del 1942 –  il comando dell’Incrociatore “TRENTO.

             A bordo di questa unità si sviluppò il  più importante evento della vita di Stanislao ESPOSITO che si concluderà con l’affondamento della nave e la morte del Comandante che volle condividerne la sorte scomparendo con essa negli abissi. Di seguito si riportano i particolari di questa straordinario evento.

Correva l’anno 1942, il Comando Italo-tedesco aveva deciso di occupare l’isola di Malta. Base navale nemica di grande ostacolo per le rotte dei nostri convogli che curavano l’approvvigionamento delle truppe sul fronte del Nord Africa. La Marina Italiana aveva affondato quanto di meglio passava il convento, per quell’epoca, ed aveva assicurata la parte dello sbarco vero e proprio. Si sapeva ormai che l’isola versava nell’assoluta indigenza non solo per quanto atteneva al civil  vivere. Ma mancava di tutto per mandare avanti la guerra.

Si sapeva inoltre che il 9 maggio la portaerei inglese “EAGLE” e l’americana “WASP” avevano lanciato 60 caccia “Spitfire” che avevano preso terra a Malta; ma si sapeva pure che non potevano essere largamente utilizzati per mancanza di carburante.

Si giunse così alla metà di giugno. Mentre da parte nostra si aspettava da un momento all’altro di mettere in pratica la sbarco, il Comando navale inglese decise di approvvigionare l’isola una volta per tutte. Fu stabilito infatti che due convogli, fortemente scortati, a distanza di 24 ore uno dall’altro, sarebbero partiti rispettivamente da Gibilterra e da Alessandria con destinazione Malta.

L’11 giugno 1942 salparono da Gibilterra cinque navi da carico e due petroliere scortate da 43 navi da guerra di cui due corazzate e due portaerei.

Da Alessandria presero il mare undici piroscafi scortati da  46 navi da guerra e 18 sommergibili che sorvegliavano lungo la rotta.

Gli Inglesi gradivano viaggiare di notte perché avvantaggiati dal radar , ma questa volta, a loro insaputa, avevamo il radar anche noi, era installato sul “LEGIONARIO”.

Le contromisure italiane furono prese come segue:

·      Contro il convoglio proveniente da Gibilterra, al Comando dell’Ammiraglio DA ZARA , lasciarono gli ormeggi le seguenti unità: gli incrociatori leggeri “Eugenio di Savoiae “MontecuccolI”, i caccia “VIvaldi”, “Malocello”, “Zeno”, “Oriani”, “Ascari”, “Gioberti” e ”Premuda”. I Smgg “Corallo”,”Dessie” , “Onice” , “Ascianghi” , “”Aradam” , “Zaffiro” , “Velella”, “Emo” , “Bronzo” , “Otaria” , “Uarsciek” , “Giada”, “Acciaio”, e “Amba Alagi”. (i caccia “Zeno” e “GIoberti” rientrarono per avaria alle macchine).

·      Contro la formazione  proveniente da Alessandria, al Comando dell’Ammiraglio IACHINO, usci in mare la seguente forza navale:  le corazzate “Littorio” e “Vittorio Veneto”, gli incrociatori “Garibaldi” , “D’Aosta”, “Gorizia” e “Trento”; i caccia “Legionario”, “Folgore”, “Freccia”, “Saetta”, “Alpino”, “Bersagliere”, “Pigafetta”, “Mitragliere”, “Aviere”, “Geniere”, “Camicia Nera” e “Corazziere”. (Si diede l’allerta a sette sommergibili)

Gli Inglesi si trovarono subito a disagio. Le notti di giugno erano brevi ed in più dovevano agire all’italiana, ovvero sotto controllo stretto dal Comando a terra di Alessandria.

Il 14 giugno 1942 il Convoglio fu attaccato degli aerei della Sardegna, a, affondarono un piroscafo e l’incrociatore “Liverpool” fu danneggiato  e rimorchiato a Gibilterra. All’imbocco del Canale di Sicilia , ritenendosi ormai a casa, il grosso della scorta invertì la rotta e ritornò ai porti di provenienza , ignari che a sole 150 miglia, si approntava per la battaglia la formazione italiana al comando dell’Ammiraglio DA ZARA.

Iniziò poco dopo quella che passò sotto il nome di “Battaglia di Pantelleria” nell’ambito dell’azione riconosciuta come “Operazione di Mezzo Giugno” e che infuriò per 10 ore . Malta fu raggiunta da soli due piroscafi, il resto fu distrutto.

La forza navale proveniente da Alessandria, intanto, continuamente esposta agli attacchi degli aerei di base in Egeo subiva continui, sensibili danni.

Intanto alle quattro del 15 giugno 1942, in seguito ad un attacco di aerei del tipo “Bristol-Beaufort “, fu colpito ed immobilizzato il “TRENTO” .Mentre il resto della squadra navale proseguiva, rimasero a dare assistenza e protezione alla nave danneggiata i caccia “”Camicia Nera”, “Pigafetta”, e “Saetta”. Spenti gli incendi a bordo , furono avviati i preparativi per prendere a rimorchio il “TRENTO” , ma intanto si erano avvicinati alla zona, richiamati dall’altissima colonna di fumo generata dai forti incendi a bordo dell’incrociatore italiano, tre sommergibili britannici. Uno di questi, il “P.35 “, poi chiamato “UMBRA” attaccò la nave ferma centrandola con due siluri. Il “TRENTO”, per lo scoppio di un deposito di munizioni, affondò all’istante. Erano le 09:15 del 15 maggio 1942.[1]

La bella unità si inabissò con gran parte dell’equipaggio . di 1151 membri dell’equipaggio , i morti furono 723 tra Ufficiali, Sottufficiali e marinai.

Col “TRENTO” scomparse fra i flutti anche il suo Comandante – un grande marinaio irpino.- ligio al Codice d’Onore Marinaro ( che vuole il Comandante a fondo con la propria nave).

Il Comandante Stanislao ESPOSITO, rimpianto da quanti lo conobbero, è sempre vivo nel nostro ricordo per la sua bontà, per il suo altruismo, per le sue non comuni doti militari. Anche a questo coraggioso figlio della nostra terra, la Marina conferì la “Medaglia d’ Oro al Valor Militare” alla memoria:

 Ufficiale Superiore di elevate qualità professionali e militari affermava, quale Comandante di Squadriglia di Cacciatorpedinieri in numerose , ardue missioni di scorta, in acque costantemente insidiate dai mezzi aeronavali nemici, alte doti di ardimento, perizia e coraggio.

Al comando di un incrociatore partecipava con una formazione navale ad una missione bellica di particolare importanza durante il quale, benché forte di numero e di mezzi, era costretto a ripiegare rifiutando il combattimento.

Colpita la sua unità dall’offesa di aerosiluranti, conservava ammirevole calma e presenza di spirito e impartiva precise , tempestive disposizioni per impedire il propagarsi di un grave incendio scoppiato in un gruppo di caldaie, prodigandosi, durate lunghe ore , con fervore ed abnegazione per assicurare la parziale efficienza della nave e infondendo nuovo ardore all’entusiastica collaborazione degli Ufficiali e dell’equipaggio con la sua alta parola ed il suo suggestivo esempio

            Mentre al suo posto di Comando, impartiva gli ordini per rimettere in moto le macchine , in parte ripristinate, ulteriore offesa subacquea colpiva l’unità, provocandone l’immediato affondamento in seguito ad esplosione di un deposito di munizioni.

Superbo esempio di virtù militari e di prode spirito guerriero, scompariva eroicamente con la sua nave, dividendo con essa l’estrema sorte gloriosa, mentre sul mare già risuonava l’eco della vittoria conseguita sul nemico da altre navi della Patria.”

                                                           (Mediterraneo Orientale , 14- 15 giugno 1942)

 

Il Comandante Stanislao ESPOSITO fu anche decorato di “Medaglia d’Argento al Valor Militare” sul campo con la seguente determinazione del 1° settembre 1942:

 

Comandante di cacciatorpediniere ha compiuto, in qualità di Capo scorta convogli, numerose missioni sulle rotte della Libia, dell’Albania e Mediterraneo, e altre missioni ha successivamente compiuto al comando di Incrociatore. Animatore instancabile della sua gente, spirito ardente è stato di sereno coraggio e di grande tenacia, nello sventare le continue insidie e i diversi tentativi di offesa nemica, faceva rifulgere le sue elevate virtù”

                                                             (Mediterraneo Centrale, maggio 1941 – aprile 1942)

 

La seguente lapide è stata deposta sulla casa natia di Stanislao Esposito in corso Vittorio Emanuele II ad Avellino.

 



[1] Giorgio Giorgerini “ La Guerra Italiana sul Mare “- LE SCIE Mondadori

CAPITANO DI CORVETTA SAVERIO MAROTTA

Comandante della torpediniera “PERSEO” – decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria

Saverio MAROTTA nacque a Falconara Marittima (Ancona) il 4 settembre 1911. Il padre, generale dei Carabinieri, appartenente ad un’antica e facoltosa famiglia di Avellino si trovò a Falconara marittima per attività legate alla sua professione di Ufficiale dei Carabinieri, quando nacque il piccolo Saverio. Pertanto si può considerare storicamente appartenente alla comunità avellinese e quindi anche al  Gruppo ANMI di Avellino. La città di Avellino gli ha intitolato una strada.

Allievo dell’Accademia Navale dal 1929, nel 1933 conseguì la nomina a Guardiamarina e nel 1934 la promozione a Sottotenente di Vascello. Dopo oltre un anno d’imbarco sull’Incrociatore “ALBERIGO DA BARBIANO”, nel 1935 imbarcò sull’incrociatore “TRENTO” con il quale partecipò per circa due anni ad operazioni militari durante la guerra civile spagnola.

Dal 1940 al 1942 fu imbarcato sull’incrociatore “CADORNA”, dove conseguì la nomina Tenente di Vascello , e con il quale partecipò numerose missioni di guerra nel Mediterraneo

Nell’agosto del 1942 gli fu assegnato il Comando della Torpediniera “PERSEO” con cui effettuò numerose missioni di scorta convogli e, stando a bordo , ottenne la promozione a Capitano di Corvetta il 1° gennaio1943.

La sera del 3 maggio l’unita salpò da Pantelleria per scortare a Tunisi il piroscafo “CAMPOBASSO”.  Verso la mezzanotte le due unità vengono attaccate da tre cacciatorpediniere inglesi (“Nubian”, “Petard”, “Paladin” ) che con fuoco preciso ed improvviso incendiarono il piroscafo. Il Comandante MAROTTA si portò audacemente all’attacco e , pur sotto un violento fuoco di artiglieria, per due volte tentò l’attacco con il siluro, finché la sua nave non fu ridotta ad inerme relitto ed egli stesso ferito da una scheggia di granata che asportò un braccio.

Dissanguato, ebbe ancora la forza di impartire ai pochi superstiti l’ordine di abbandonare la nave. Ripresa conoscenza su un battellino, su cui era stato trasportato dai suoi uomini, si fece riportare a bordo della nave ormai semisommersa dai flutti e scomparve nell’affondamento dell’unità. Scomparse così un altro prode figlio della nostra Terra.

In riconoscimento dell’alto valore del suo gesto la Marina Militare Gli concesse la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria con la seguente motivazione:

Comandante di torpediniera in missione di scorta a nave trasporto, avvisata di notte da forza navale soverchiante che muoveva all’attacco alla formazione, che con fredda determinazione ed indomito ardimento impegnava la sua unità nel contrattacco pur sotto il preponderante, intenso e preciso tiro concentrato delle artiglierie nemiche, tentandone per due volte il siluramento.

Lanciati tutti i siluri, nonostante la sua unità fosse stata irrimediabilmente colpita, rispondeva all’offesa avversaria col fuoco di tutte le armi di bordo fino a che la torpediniera, crivellata dai colpi e ridotta ad informe relitto, veniva affondata. Con un braccio asportato da un obice, quasi dissanguato, trovava – in disperato appello alle residue energie – la forza di impartire ai pochi superstiti l’ordine di abbandonare la nave, e si abbatteva svenuto. Ripresa conoscenza su di un battello su cui era stato trasportato dai suoi uomini, si faceva riportare a bordo – tra i caduti – per dividere con essi la sorte dell’unità che, nuovamente colpita, esplodeva affondando.
Luminoso esempio di indomabile spirito combattivo e di altissime virtù militari
.
Mediterraneo Centrale, 4 maggio 1943

Il Comandante MAROTTA fu insignito inoltre delle seguenti decorazioni:

  • Medaglia d’Argento al Valore Militare (Mediterraneo centrale, gennaio 1943);
  • Medaglia d’Argento al Valore Militare (Africa settentrionale, ottobre 1942);
  • Medaglia di Bronzo al Valor Militare (Mediterraneo Centrale, 20 settembre 1942 – 4 aprile 1943);
  • Medaglia di Bronzo al Valor militare (Canale di Sicilia, 5 dicembre 1942);
  • Medaglia di Bronzo al Valor militare (Canale di Sicilia, 24 dicembre 1942)

A testimonianza dell’origine irpina del Comandante MAROTTA, sul palazzo dell’ex caserma del Distretto Militare di Avellino, nel dopoguerra è stata murata la seguente lapide dedicata a tutti gli Irpini decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare:

SOTTOTENENTE DI VASCELLO ALESSIO DE VITO
Assaltatore – Decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare

Alessio de VITO nacque a Summonte (AV)il 6 aprile 1906 da Prezioso e da Pasqualina Palumbo.  Nel 1922, all’età di 16 anni, si arruolò nella Marina Militare come volontario con ferma di sei anni. Superò il concorso entrando in Marina con la categoria di “Cannoniere”.

Al Termine del corso “Ordinario” viene imbarcato sulla nave da battaglia “Giulio CESARE” con la quale partecipa all’occupazione di Corfù.

Dopo un lungo periodo d’imbarco sul cacciatorpediniere “MONZAMBANO” venne trasferito a Pola dove frequenta il corso I.G.P. Istruzione Generale e Professionale) al termine del quale fu trasferito in Servizio Permanente nella Marina Militare.

Dal 1928 al 1934 effettuò diversi imbarchi su unità della Flotta al termine dei quali fu trasferito presso la Scuola C.R.E.M. (Corpo Reali Equipaggi Marittimi) di San  Bartolomeo (La Spezia) per frequentare il Corso “P” (Perfezionamento).

Nel 1936 partecipò alla guerra d’Etiopia destinato presso il Comando Marina di Massaua e, rimpatriato, partecipò alle operazioni militari per l’invasione dell’Albania a bordo della Torpediniera “AIRONE”.

Fin qui tutto procedette nell’iter formativo/ lavorativo classico dei Sottufficiali della Marina Militare : imbarchi, periodi di destinazione a terra per i corsi di addestramento, trasferimenti da un Ente ad un altro.

Nel 1937, trasferito a domanda nei “Mezzi d’Assalto” ed assegnato alla 1^ Squadriglia MAS (Motoscafo Armato Veloce)  di La spezia , De VITO iniziò un addestramento quotidiano durissimo sui mezzi d’assalto di superficie (barchini) che lo avrebbero poi condotto a compiere l’audace “ Impresa di Suda” dove – con altri 5 operatori diretti dal Tenente di Vascello Luigi FAGGIONI – conseguì l’affondamento dell’incrociatore inglese “YORK” e della petroliera “PERICLES”.

Segue ora una descrizione dettagliata dell’impresa  che è da tutti conosciuta come “ Il forzamento della baia di Suda “:

L’Italia e la Marina erano ancora sotto shock per le pesanti perdite in uomini e mezzi nella tragica notte di Matapan (2331 marinai perirono , tre incrociatori – Pola, Zara e Fiume . e due Cacciatorpediniere – Alfieri e Carducci affondarono), che un manipolo di coraggiosi: Faggioni, Cabrini, Tedeschi, Beccati, Barbieri  e De Vito, nella notte tra il 25 e 26 marzo 1941, a bordo di “Barchini Esplosivi” andarono all’assalto di Suda ,nell’isola di Creta. Questa magnifica baia, collegata al mare aperto da un canale lungo circa otto miglia, era considerata un rifugio sicuro per la Flotta Inglese, ed infatti, vi sonnecchiava l’incrociatore Inglese “YORK” da 10.000 tonnellate di dislocamento.

I nostri Assaltatori, dopo aver eluso la stretta vigilanza esercitata dagli inglesi lungo le sponde del canale, disseminate di innumerevoli fortilizi, superarono indenni quattro ordini di sbarramenti, scavalcandoli con la propria imbarcazione , giunsero all’appuntamento nella baia con mezz’ora di anticipo. Decisero quindi, i nostri eroi, di attendere l’ora esatta apportatrice di luce propizia per l’attacco.

Ingannavano il tempo (come suol dirsi) consumando qualche porzione di cioccolato, facente parte della loro scorta di viveri di conforto, così come mangiamo bruscolini mentre si attende la fidanzata ritardataria.

Giunse finalmente l’ora X . i nostri si divisero i bersagli  e via, dopo il rituale reciproco: “in bocca al lupo”.

Saltò in aria l’incrociatore “YORK” , una petroliera da 10.000 tonnellate ed un piroscafo vuoto.

Più che il peso delle perdite , questa operazione fu per il nemico il primo enorme affronto che chiariva col duro linguaggio del coraggio che non c’era barriera capace di arginare la temerarietà del Marinaio Italiano.

Alessio De VITO, assieme agli altri compagni dell’impresa, fu fatto prigioniero dagli Inglesi e trasferito in un campo di prigionia  in Inghilterra dove rimase dal 1942 al 1946.

Al suo rientro in patria viene promosso , per meriti di guerra , al grado di Capo Cannoniere di  2^ Classe. Nel mese di novembre del 1947, nel grado di Capo Cannoniere di 1^ Classe fu , a domanda, collocato in congedo. Nell’anno successivo fu promosso al grado di Sottotenente di Vascello (CEMM) nella riserva.

     Ai volontari di Suda , la Marina conferì la Medaglia d’Oro al Valor Militare, onorificenza di cui vanno fieri i Marinai Irpini di ogni tempo, felici di stringersi ancora intorno al loro eroico Alessio DE VITO.

Di seguito la motivazione:


Coraggioso e tenace operatore di mezzi d’assalto di superficie, con altri valorosi già compagni dei rischi e delle fatiche di un durissimo addestramento, dopo una difficile navigazione notturna forzava una ben munita Base Navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni .Nella rada violata, quando già imminente era l’alba, con freddezza pari al coraggio attendeva , riunito ai compagni, che il Comandante della Spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all’audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via si lanciava all’assalto con saldo animo e alto spirito aggressivo , coronando con il successo la concezione teoricamente perfetta dell’impresa. Degno in tutto delle più pure tradizioni della Marina Italiana.

 (Baia di Suda, notte del 26 marzo 1941)

 

In qualità di Presidente del “Comitato Tecnico Esecutivo” per la realizzazione del Monumento ai  “Marinai Irpini Caduti in guerra sul Mare” eretto in piazza Kennedy di Avellino (24 giugno 1979), profuse impegno ed energie coordinando  i contributi degli innumerevoli suoi estimatori sparsi per il mondo.

E stato Presidente Onorario del Gruppo ANMI di Avellino.

 

Morì a Summonte (AV) il 24.09.1982.

 

Così lo ricordò il Prof. Carmine Fernando VENEZIA  , in occasione della sua morte, in questa Lettera di condoglianza ai Marinai Irpini

 

Marinai fratelli, non piangete

 

Noi non abbiamo perduto ALESSIO DE VITO: egli è avanti a noi…

S’è fermato sull’altra riva, a forzare un’altra volta la Baia di Suda.

S’è fermato sull’altra riva, ed ora è li che ci aspetta.

Fate che mai venga meno la vostra autentica fede di sempre, fedeli ognora a Dio, alla Famiglia  e alla Patria.

E’ cosi triste per me: e tanto avrei desiderato stare con voi in questa giornata di pausa funesta…

Ma oggi… alla stessa ora, quando tu scenderai in fondo alla stiva…amico mio io, per

strano destino salirò le scale di un vano, sudato riconoscimento.

E molto lo devo a te, Alessio DE VITO .

Grazie, amico mio per avermi dato la possibilità di realizzare un monumento agli Irpini, a quelli che – nati sui monti – nel mare hanno trovato il riposo eterno fra la schiera dei  “Senza Croce”…

Grazie a te insieme agli altri: ma a te sovra gli altri. Solo io so quanto mi sei stato vicino. E quella pietra di Carpignano… dura, forte e compatta…rimarrà il tuo documento, un documento d’affetto imperituro.

Il treno mi porta lontano dalla mia terra ferita, ma la tua immagine cammina con me, perché sei stato veramente un amico.

Tutte le Associazioni d’Arma che la Marina ha  voluto me a rappresentare, ora inchinano le loro bandiere con i loro ricordi e le loro memorie, e tu passi…E tu passi…

Suonano le campane  e piange la tua Summonte; con te muore un simbolo.

Addio Comandante!

Come un giorno alla Baia di Suda …forza ora la porta del cielo e prega l’Eterno che ci rimandi sulla terra i vecchi Eroi, a ritrovare la nostra umana dignità di credenti.

Soldati di Terra , di Mare e di Cielo…Associazioni d’Arma della nostra Irpinia, nel suo nome ancora uniti: uniti per sempre nelle vie dell’onestà, dell’amore e del bene!

Addio Comandante!

Aspettaci sulla banchina del porto, dove in fondo al molo c’è un faro che non si spegne…

In un orizzonte senza confini l’immensa, perpetua luce del Paradiso.

                                                                             Amen

                                                           Alpino Carmine Fernando VENEZIA

                                                 Coordinatore Gen. Associazioni D’Arma in congedo

 

Lettera al Podestà di Summonte

L’originale della presente lettera è posseduta dai familiari in Summonte. Questa fu inviata dal FERRANTE, commilitone di Alessio DE VITO, qualche giorno dopo l’Impresa di Suda.

Egli, prima di partire per quell’azione di guerra , affidò in segreto allo scrivente la somma citata.

Questo ci dimostra – anche in quelle ore difficili – quanto  a Lui furono a cuore gli amici meno abbienti del suo paese

1° Aprile 1941

Al signor Podestà di Summonte

 

  Mi pregio informarvi che un commilitone – vostro concittadino – pochi minuti prima della sua partenza per una pericolosa missione di guerra sulla quale mi è impossibile fornirVi più precisi ragguagli e della quale i ragguagli stessi verranno un giorno eternati dalla storia e additati alle generazioni future, mi ha incaricato, fra l’altro di farVi pervenire la somma di denaro da lui posseduta in quel determinato momento, perché la vogliate devolvere a favore delle famiglie più bisognose di codesta località.

  Il vaglia di lire 203,50 è stato emesso in data odierna ed intestato personalmente al Vostro Ufficio.

  E’ con animo commosso ed ancora vibrante dei momenti indimenticabili vissuti con il vostro concittadino che assolvo questo doveroso compito; non posso palesarVi il nome di questo commilitone aureolato oggi di pura gloria perché egli stesso mi ha pregato di astenermi;  posso però aggiungere che all’istante del distacco, al mio marinaresco augurio di “In bocca al lupo” lanciatogli con voce non troppo ferma, mi rispose con il saluto di “ Viva il Re”.

                                                                                             F.to : Franco FERRANTE

L’ Amministrazione Comunale di Summonte (AV) –in riconoscimento dei suoi meriti –  il 27 marzo 1982 intitolò la “Piazza Tiglio” (la più bella del Paese) alla memoria del S.T.V. Alessio DE VITO. In tale occasione fu anche deposta una lapide sulla casa natia in via  Roma, 37.

Tenente di Vascello BARTOLOMEO LA PENNA
Sommergibilista – Comandante del sommergibile “SMERALDO”

Bartolomeo LA PENNA nacque a Bisaccia il 19.10.1910. Entrato giovanissimo nell’Accademia Navale di Livorno  precorse la carriera che ogni giovane ufficiale persegue alternando imbarchi su diverse Unità della flotta.

Con il grado di Tenente di Vascello il 15 giugno 1941 assunse il comando del Regio Sommergibile “SMERALDO” nella sede di Augusta  mentre l’unità effettuava un ciclo di lavori di manutenzione che si conclusero il 1° settembre 1941.

Il 15 settembre  lasciò la base di Augusta per portarsi in agguato al largo della Tunisia nel Canale di Sicilia, per contrastare una formazione navale inglese partita da Gibilterra e diretta in Mediterraneo Orientale; sarebbe dovuto tornare alla base alla base il 26 settembre , ma non fece mai ritorno.

Non risultando dalla documentazione inglese alcuna notizia di azioni antisommergibile in quella zona e in quel periodo, l’ipotesi più probabile è che i sommergibile sia saltato su una mina tra il 16 ed il 26 settembre 1941.

Con il sommergibile “SMERALDO” scomparvero il Comandante LA PENNA, altri 4 Ufficiali e 40 fra e Sottufficiali e Marinai.

Sino ad allora il sommergibile aveva effettuato 8 missioni offensive e 7 di trasferimento, percorrendo 8459 miglia in superficie e 1886 in immersione.

 

Il 24 giugno 1979, la N.D. Prof.ssa Nicolina LA PENNA , sorella minore del Comandante LA PENNA, gentile rappresentante di quell’Alta Irpinia, nativa di Bisaccia, fu la madrina del  Monumento “Agli Irpini Caduti in Guerra sul Mare” posto in piazza Kennedy di Avellino.

Il 12 ottobre 1948 l’Amministrazione comunale di Bisaccia e i suoi familiari vollero ricordare in una lapide il suo sacrificio e la giovane vita offerta per la ria.

Capo 3^ Classe Torpediniere. Silurista. ARTURO VIETRI

Sommergibilista decorato di M.A.V.M.

Arturo VIETRI nacque ad Avellino il 16 ottobre 1894 da Michele e Carolina BASILE. Arruolato nella Regia Marina  partecipò  alla Scuola Sommergibilisti al termine della quale partecipò alla guerra italo-turca negli anni 1911-12. Pochi anni dopo , con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale , il sommergibilista Arturo VIETRI si trovò imbarcato sul Sommergibile “JALEA” che  operava nelle acque della laguna veneta.

La tragedia, una delle tante che segnarono il grande conflitto mondiale, si consumò nel pomeriggio del 17 agosto 1915, nelle acque del golfo di Trieste. Il sommergibile “JALEA”, partito da Venezia il 16 agosto, nel corso della sua ottava missione in mare ed in navigazione di rientro alla base, urtava contro una mina di sbarramento nemico affondando a circa tre miglia a est sud-est del banco di sabbie di Mula di Muggia, di fronte alla pineta di Grado.

Unico superstite e testimone della tragedia dello “JALEA” fu il sottocapo torpediniere silurista Arturo VIETRI. Egli aveva subito raccontato il repentino affondamento del sommergibile davanti alla all’apposita Commissione , istituita immediatamente presso il Comando Marina di Venezia.[1]

Più tardi lo stesso racconto fu ripreso da Cesco Tomaselli e Pubblicato da A. Mondadori nel  1937 nel libro “ Le avventure Eroiche” , con il titolo “La nuotataccia”.

Questo è il racconto dell’odissea del naufrago VIETRI:

Un sommergibile nazionale s’è immerso all’altezza di Grado or son vent’anni, il 17 agosto 1915, giusto sul far del giorno. Non è più risalito a galla.
Ecco i drammi che a tanta distanza afferrano ancora alla gola. Il sommergibile sarà sempre, per noi, gente di superficie, un natante diabolico, uno strumento che parla più all’immaginazione che ai sensi, una cosa da star a paro con gli squali e coi giganti degli abissi marini.
            Intorno a un uomo che frequenta l’interno di questi mostri ci dovrebbe essere tanta riverenza come intorno agli eroi dei poemi nazionali: ma nella vita di ogni giorno chi li conosce ?
Sono esseri vestiti alla marinaia come tanti altri: esseri però che, quando fanno parlar di se, o è per corazzate che ribaltano con la chiglia in su, o per convogli di navi che in cinque minuti cancellano dall’orizzonte, o per casi come questo che ci accingiamo a raccontare.
             Il meriggio di quel giorno che è stato visto immergersi dal semaforo di Grado, il JALEA naviga a quota di periscopio, dopo aver posato sul fondo dal mezzogiorno alla una per la colazione degli uomini. Il sommergibile, con a bordo il comandante Giovannini e ventitré persone (in realtà ne risultano 20) fra stato maggiore ed equipaggio, è uscito da Venezia la sera precedente con la consegna di passare a nord degli sbarramenti in prossimità della costa, proseguire in emersione verso Grado e al far del giorno immergersi per dislocarsi nel golfo di Trieste, regolandosi in modo da raggiungere Porto Buso verso il tramonto, oppure posarsi sul fondo tutta la notte.
            Sono le 14:50 del 17 agosto. Il torpediniere silurista Arturo Vietri, di Avellino, che mezz’ora prima è smontato di guardia al periscopio, si è ritirato nei locali dei tubi di lancio di prora, e di là rammenta di aver udito il comandante ordinare al marinaio di guardia ai timoni : ” Vieni per 152 “.
Subito è iniziata l’accostata per invertire la rotta. In quell’istante è da porsi il disastro.
            Ora sappiamo che il JALEA è andato a urtare contro un banco di mine austriache di recente collocato al largo di Grado: ma a bordo non è avanzato tempo di formulare ipotesi che la catastrofe è precipitata addosso a quegli uomini come la valanga in montagna.
            Nella repentina oscurità che incomincia a puzzar di cloro, qualcuno di prora ha gridato: ” Acqua “.
            Quasi di rimando risuona l’ordine del comandante: ” Aria a tutto ! “.
            Sono le uniche parole del dramma. La lancetta del manometro si sposta velocissima; sei metri, otto, undici, tredici, quattordici, e qui si ferma….Tutti hanno avvertito un tonfo, il senso di aver finito di cadere, di aver toccato il fondo della propria tomba.
            Buio, acqua che irrompe gorgogliando, odore di cloro, silenzio: qualcuno già non respira più.
            Ma sei uomini si dibattono nella luce violacea della torretta.
            Si, figliuoli, quella è forse l’unica via di scampo. Ma chi ce la fa a sollevare il portello di bronzo, spesso 450 millimetri, con quattordici metri d’acqua sopra ?
            Coraggio, ragazzi, spendete l’ultima oncia di fiato, che avete ancora due dita d’aria sopra la testa, due dita che valgono cento braccia……..Forza, ora viene…….Chi l’ha aperto ? Pare sia stato il maresciallo Armellino, che ci si è messo con tutti i suoi muscoli. Saltato il portello, egli è stato visto partire come un tappo. Ma gli altri gli sono guizzati dietro a distanza di secondi.
            A galla si ritrovano: sono sei in cerchio, uno di fronte all’altro, in mezzo a larghe chiazze di nafta, già quasi irriconoscibili per lo sbilancio di pressione e per i veleni respirati. Chi è quello che sanguina dalla fronte ? E’ il tenente di vascello Cavalieri. Soffre forse più di tutti. Vietri gli si avvicina e lo aiuta a togliersi la scarpe e i pantaloni. Lo stesso fanno il sottocapo Di Biagio, l’elettricista Motolese, il marinaio Giacometti: solo il maresciallo Armellino, che è stato schizzato a galla col berretto in testa, si terrà addosso ogni cosa. E ora che fare ? Non è difficile arguire quale possa essere il programma di bagnanti in quelle condizioni: cercar di agguantare la più prossima terra. E si direbbe anche abbastanza vicina: a Punta Salvore, per esempio, pare di poterci arrivar con quattro bracciate. Ma quegli uomini sono dei marinai italiani: quantunque lunga sia la via verso la costa friulana, quella essi tenteranno, che ogni altra significa nuotare verso la prigionia.
            Il dramma si sviluppa secondo ordini di fatalità: diciotto giacciono in fondo al mare, cinque malediranno di aver rivisto il sole per essere così orrendamente giocati dalla sorte; uno solo, il più robusto, il più calmo o il più disperato, vedrà spuntare il nuovo giorno. Così è. In presenza del destino, altro non siamo che foglie turbinate dal vento: non si sa mai l’attimo in cui la raffica ci poserà, e dove, e se per sempre.
            Incominciamo a nuotare. Il mare è leggermente increspato, l’aria calda, pesante. La costa di Grado, perché bassa, non si scorge a fior d’acqua. Per un po’ rimangono in gruppo, poi uno si ferma, e un secondo, e un terzo. Fermarsi vuol dire non aver più forza per proseguire, darsi vinto per lo sfinimento o per il crampo.
            A mano a mano che affogano, gli altri odono un grido, o un appello, o un’invocazione.
Ora è la volta del maresciallo Armellino. ” Vietri, figlio mio, aiutami, non ne posso più……” ” Ma faccia come me, maresciallo, si spogli: ora vengo ” Vietri tralascia di svestire Motolese e va verso l’altro. ” Maresciallo, si dia forza…..” Ma egli ormai nuota verso un berretto che galleggia. E quattro.
            Il sole declina, l’aria rinfresca, è triste veder sopraggiungere la sera quando si è naufraghi in mezzo al mare.
            Motolese sta zitto per quindici o venti metri, poi gli torna l’avvilimento. Che pena non poter soccorrere l’amico come il cuore vorrebbe……..Bisogna su col morale, mostrargli come ci si riposa, che in quelle condizioni il pericolante è fuori di senno, si attacca alle spalle, il che è come dire affogare in due. E sono amici.
            ” Arturo, dammi la mano. Vado giù. ” La voce è ormai di un uomo che supplica, allo stremo delle forze.
            ” Ebbene, finiremo insieme “, pensa Vietri: e nuota verso il compagno, che una cresta d’onda gli nasconde.
            Ma anche dopo non vede più nulla. Come è nemico degli amici il mare……Certo egli è andato sotto quando ha gridato: “Arturo, dammi la mano “. Forse non voleva nemmeno esser soccorso: gli bastava veder il volto dell’amico nel momento di abbandonarsi.
            Ora Vietri è solo. Cerca di raccapezzarsi. Ecco: con uno sforzo potrebbe raggiungere prima di notte la Mula di Muggia, a oriente di Grado. Ma dove sono esattamente gli austriaci ? No: nel dubbio è meglio continuare al largo, puntando verso Grado o la Bassa Friulana. Scende la notte, scura, nuvolosa, con chiarori strani all’orizzonte. Sono i razzi del Carso, è la solita pirotecnica di tutte le notti, ma è insolito vederla così, dal largo, a pelo d’acqua. Ora guizzano vampe sanguigne: ha da essere un bombardamento sul San Michele. Si distinguono i tonfi dei grossi calibri : bo-ouòm, bo-ouòm……Poveri soldati, neanche loro se ne vedranno il sole domani…….Non si può dire quale sorte sia più precaria: essi sotto le granate dirompenti, la sassaiola delle pallette di piombo, la falciata delle mitragliere, egli evaso da una tomba, sperduto in quel mare nero, con l’acqua sempre alla gola e il crampo che se gli prende la braccia è come una pallottola alla spina dorsale. Ogni tanto gli si raffredda la spalla sinistra. Deve allor cambiare posizione, e nuotare immerso da quella parte. Nuota economicamente, cercando di risparmiare le forze per quando tornerà il giorno.
            Non ha ancor vinto il ribrezzo della notte, dell’acqua nera: quando scopre che, agitandola, anche quell’acqua color inchiostro diventa chiara e fosforescente, vien preso da una contentezza puerile.
            D’un tratto ha un sussulto. Ha urtato contro qualcosa di viscido e di tentacolare, per cui ha dato un balzo indietro. Il primo pensiero è stato di aver “sentito” qualcuno dei suoi poveri compagni…….Cinque minuti dopo, riavendo lo stesso contatto, riderà della precedente paura: ma non sarà abbastanza avveduto da realizzare che un banco d’alghe rappresenta, per un naufrago in quelle condizioni, un’illusione d’appoggio che ha la sua influenza sul morale. Le tre di notte. L’ora dei capolavori e dei delitti, delle sentinelle che s’addormentano e dei colpi di mano. Sulle linee è tornata la quiete. Il cannone tace. Qualche razzo zampilla ancora sulle quote dove infuriò il bombardamento. Altrove la guerra sonnecchia.
            Animo, Vietri, se superi l’alba sei salvo…….Di solito, all’alba, i vecchi muoiono, ma chi vuol conquistarsi il mondo comincia col sole la sua giornata. Tre anni più tardi, nella semi luce di un’alba Luigi Rizzo affonderà una corazzata di linea.
            Non nuota quasi più. Le forze lo stanno abbandonando. Gli sopraggiunge quella sonnolenza invincibile ch’è il preludio dell’estremo abbandono, quasi una forma di soave agonia. Strani pesi gli stirano le braccia e le gambe, dalle stremità intirizzite guizzano lunghi brividi, ha la sensazione che gli lavino la schiena con un acqua gelata. ” Ora mi lascio……..” mormora a se stesso. Rivede a uno a uno i volti dei cari compagni, che da parecchie ore hanno finito di penare. Riode le parole del comandante Giovannini, che poteva tentare anche lui di salvarsi e ha preferito restare dentro la nave spezzata, insieme con gli uomini che non avevano scampo.
            ” Andate……io resto qui……per me è finita ” Qualcuno aveva giusto vent’anni. Già, ma anche lui è di quel giro, è della classe 1894, ha ventun anni. Come si fa a morire a ventun anni, come si fa a dire addio alla vita proprio nel momento in cui si schiude ?
             Qui bisogna inventare qualcosa per rimettere in circolazione il sangue, per riscaldare i muscoli, per vincere la sonnolenza. Gli viene una pensata: canterà. Non ha mai cantato nella sua vita in quelle condizioni, pochissimi uomini devono esserci al mondo che possano dire di aver fatto altrettanto. Eppure è vero che fa bene cantare: tanto vero che il giorno è spuntato ch’egli quasi non se n’è accorto. Improvvisamente ha avvertito come una carezza calda sulla nuca, e nel medesimo istante gli è brillata dinanzi agli occhi la punta del campanile di Grado. La salvezza imminente gli ridesta tutte le energie. A trecento metri dalla riva incomincia a chiamare; poi scorge una boa e si dirige a quella, sospirando di potersi attaccare al gavitello e non arriva che a graffiarlo.
            Solo al quarto tentativo lo agguanta.
            La felicità di aggrapparsi a un corpo solido gli fa quasi perdere i sensi. Per alcuni minuti rimane avvinghiato a quel cono galleggiante, le unghie conficcate nel minio, il sangue inerte, gli occhi chiusi. Come in un dormiveglia ode un megafono che parla dalla riva, poi delle voci vicine che gli fanno alzare la testa; un ” topo ” vogato da marinai avanza nella sua direzione. ” Chi sei ? “, gli gridano dalla barca, ” JALEA “, risponde.
            ” Il sommergibile affondato ieri ?….. ” ” Si “.
Qualche minuto dopo una piccola folla di soldati e di marinai fa largo sulla banchina a un uomo completamente nudo, che respinge la barella e chiede soltanto una sigaretta, perché vuol mostrare che una nuotata di sedici ore non manda all’infermeria un marinaio italiano.
            ” Acqua, datemi acqua ! “. Ha una sete da commettere un omicidio. Al corpo di guardia un marinaio crede di far bene offrendogli un cognac; egli scaraventa a terra il bicchierino, che il primo impulso era di tirare in faccia all’imprudente. ” Del cognac a uno che muore di sete…….” Non osano più contrariarlo. Lo lasciano ingoiare una dopo l’altra due bottiglie. Ora è calmo, si stropiccia gli occhi, sorride. Che tremenda avventura…..Non gli par vero di esser lì a raccontarla. E deve raccontarla ai superiori, deve raccontarla a Sua Maestà il Re,” che volle facesse subito un telegramma a mamma mia, che allora aveva quattro figli sotto le armi “, deve ripeterla a tutti quelli che gli regalano una sigaretta, un pettine, un biscotto, pur di farlo parlare.
            E’ felice. Gli hanno promesso la medaglia d’argento.
            Il capitano di vascello Bonelli, comandante della flottiglia sommergibili, se lo conduce a Venezia n macchina scoperta; egli indossa un uniforme senza stellette e tiene dei giornali sul petto. A Mestre, in un ristorante pieno di ufficiali, tutti commentano il suo aspetto, tutti lo guardano, però nessuno commette l’indiscrezione di domandargli chi sia. Se un Capitano di Vascello se lo porta dietro in quello stato, ci sarà la sua ragione.
            E’ trasognato. Gli par sempre di nuotare. Così suppone che debbano camminare i sonnambuli sugli spigoli dei tetti. Ed ecco che viene la sera, ed egli ritorna sulla nave-appoggio dei sommergibili, come se tutta quella storia fosse stata realmente un’allucinazione.
            E’ già suonato il silenzio. Egli va diretto al suo quadrato, senza pensare a nulla, desideroso soltanto di buttarsi su un letto. Sopra la solita porta legge : ” JALEA “. Si affaccia, e vede una cosa che doveva pure immaginare, s’avesse un po’ riflettuto: vede i posti vuoti, le brande fatte a sacco, le plance senza cassette.
            Nessuno di quelli che hanno ancora il nome nella targhetta riposerà più su quelle brande.
            Questa volta non riesce più a dominarsi; gli viene un pianto convulso che dura qualche minuto. Poi automaticamente, scioglierà la catenella della branda su cui è scritto ” Vietri Arturo, matricola 39.120 “, si tirerà la coperta sulla faccia e proverà a dormire. FINE


            I ricordi di Vietri arricchiscono di particolari il racconto di Tomaselli fermando l’attenzione ai sei naufraghi, che più tardi si scoprirà essere stati in verità sette, dovendosi tenere conto, con Vietri, Cavalieri, Di Biagio, Giacometti, Motolese e Armellino, anche del secondo capo torpediniere Giuseppe Martignoni di Secondigliano, che ripescato morto sarà il primo ad essere tumulato a Redipuglia.

 

Della “Grande Storia” ne ha parlato per primo Gabriele D’Annunzio, il 20 settembre 1916, in un articolo dal titolo “I morti del mare” finito in prima pagina del Corriere della Sera.

Il primo volo di ricognizione, infatti, finalizzato alla localizzazione del relitto dello “Jalea”, era stato organizzato il 27 agosto 1915 dallo stesso D’Annunzio a bordo di un “Albatros” pilotato da Giuseppe Miraglia, la stessa coppia che il 9 agosto 1918 compirà il famoso volo Vienna. D’Annunzio  ne parla più approfonditamente anche in una “Licenza” aggiunta all’edizione della “La Leda senza cigno” del 1916. Con il suo inconfondibile stile ci descrive i sei marinai che riuscirono ad uscire dal relitto appena questo toccò il fondo del mare e il ritrovamento di Arturo Vietri, l’unico superstite.[2]

 

“Questo dramma sottomarino è d’una brevità e d′una novità non eguagliate da alcun’altra delle tragedie navali conosciute. Le persone del dramma sono vestite d’acqua sino al collo. I corpi sono già ingoiati dall’abisso; ma le sei maschere umane respirano ancora allo stesso livello, nell’aria che comprime la massa irrompente e le impedisce di invadere tutto lo spazio chiuso. La mia immaginazione vede quei sei respiranti teschi decapitati dal filo dell’acqua, e non riesce a rilevare i loro lineamenti né a rischiararli di quel chiarore incognito. Li cerco invano nel tranquillo occhio nero del superstite che forse ne serba l’immagine ma non l’esprime. Non so che avida violenza è nel mio sguardo, come per sforzare quel taciturno a rievocare il momento indicibile, come per comunicare l’acuità dei miei sensi a quel sobrio narratore.

Che accadde quando il portello di prua fu aperto e il primo uomo balzò fuori e gli altri lo seguirono risalendo dal profondo verso la luce che a mano a mano cresceva? Vietri fu l’ultimo ad abbandonare lo scafo squarciato. La vita non v’era del tutto spenta. Pochi attimi innanzi, il comandante era stato intraveduto ancora in piedi. Il resto dell’equipaggio non aveva dato grido né segno, ma forse laggiù nella tenebra qualche gola palpitava tuttavia.

E v’era tuttavia l’ultimo dolore delle cose, l’aspetto estremo delle cose che non hanno più potere, che non servono più, che non indicano più nulla, che non misurano più nulla: il portavoce, il tubo del periscopio, i cinque tubi della pompa, i tre segnali rossi, la lampadina della bussola, i quadranti degli indicatori, le ruote dei timoni, la bandiera avvolta… Il manometro grande aveva segnato i metri di profondità? aveva misurato di metro in metro la discesa del sepolcro? V’era là, in quegli ultimi attimi, un odore, un rumore, un silenzio, un’ombra, una figura finale, una faccia della sorte, un estremità immaginabile che questi giovani occhi videro e che nessun altro mai vide né vedrà mai. La poesia in me trema e si vela.

Ora le cinque teste umane, l’una dopo l’altra, emergono a fiore del mare deserto. Si contano. Una chiazza oleosa li ha preceduti. Ecco Vietri a galla: respira; si netta il viso con una mano; sente nel torace i suoi polmoni e il suo cuore; sente sotto il cranio il suo cervello maschio. Tutto in lui è sano e pronto. Subito le sue forze si equilibrano, la sua mente s’aguzza, la sua bontà si offre. E tutto il suo coraggio si quadra nella disciplina. Aiuta Guido Cavalieri a togliersi le scarpe e gli accomoda il materasso di gomma (ve n’erano otto a bordo) che gli serve a meglio sostenersi.

Dà una mano agli altri per liberarli dagli impedimenti. Sveste il torpediniere Motolese, che pare il men vigoroso. Poi pensa a sé medesimo. Sa che non ha grand′arte nel nuoto e che gli conviene adoperare ogni accorgimento per risparmiarsi. Il mare è mosso da scirocco. Quando egli s’allontana dal luogo del naufragio, dove pullula la nafta mista alle bolle d’aria, quasi rantolo e sangue della nave uccisa, un gran dolore gli fende il petto. Fa tre volte il segno della croce, raccomanda a Dio le anime dei sepolti, promette di recare il messaggio alla patria. Poco dopo, ode dietro di sé il grido soffocato del torpediniere che già pericola; ode l’utima voce di Ciro che annega; vede davanti a sé il gruppo degli altri tre nuotare più veloce verso ponente. Rimane solo. Il mare è sempre deserto.

Lo scirocco rinfresca. Sul far della sera, dopo circa sei ore di nuoto, il naufrago avvista la Mula di Muggia, ha l′illusione della salvezza, la tentazione dell’approdo. Ecco il momento eroico di questo gran cuore marino. La terra è là, sinuosa e bassa, coi suoi lunghi dossi violacei. La sera sinistra cala su la solitudine non interrotta né da una scia né da una traccia di fumo. Lungo la costa nemica si accendono i fasci di luce che scrutano il cielo e il mare ostili. Dai cannoni che tuonano su l′Isonzo, si propaga il rombo per tutto il golfo. Nessuna stella sgorga dal crepuscolo che s’abbuia. Laggiù, sul fondo di sabbia e di fango, sotto lo specchio d’acqua ove continuano a pullulare la nafta e l’aria, il Jalea morto giace coi suoi morti. Un d′essi è scivolato fuori dalla falla di poppa, e va fluttuando nella striscia oleosa.

 Dove sono i tre nuotatori che mostravano di aver tanta fretta? Dov′è Biagio di Tullio? dov′è Guido Cavalieri? Hanno raggiunto la costa? hanno preso terra a Grado? già in salvo? Un materasso di gomma galleggia trasportato dalla marea, là, verso il Banco d′Orio. Vietri, che vuol dire costanza, mentre fa il morto, supino su l′onda squamosa, considera pacatamente le probabilità di salvezza e delibera. Sa che alla Mula di Muggia in quell’ora non c’è anima viva e che, se riescisse ad approdarvi, si troverebbe tutta la notte abbandonato in una spiaggia perfida di rena e di melma. A progredire verso Grado la corrente non gli è favorevole, anzi lo respinge al largo per levante. Ma quella stessa corrente, s’egli la segua invece di contrariarla, lo aiuterà forse a ridiscendere verso Grado nella prima luce del mattino. Gli conviene dunque riallontanarsi dalla terra e prepararsi a passare in mare una notte di circa nove ore. Non esita, non si scoraggia, non dubita delle sue forze, non ha paura dell’ignoto, non è stanco di lottare e di patire. « O cuore, sopporta. » Ed è un cuore di vent’anni!

Riconosce il proiettore austriaco di Duino; e su quello si regola per determinare via via la direzione e la velocità della deriva. Tutta la notte vede balenare, ode tuonare la battaglia lontana su l′Isonzo affocato. Il cuore non gli vien mai meno, né la mente gli s’offusca. È duro, costante, vigile, sagace. Come non si lascia sopraffare dall’ansia, così non si lascia vincere dal freddo, dalla sete, dalla fame. Sono passate quattro ore, e la notte è al colmo. Fra quattro ore comincerà ad albeggiare. La sua pazienza d’uomo supera la pazienza della notte. Il vecchio marinaio d’Itaca non è più virtuoso di questo imberbe marinaio campano.

Il sale lo impregna e lo preserva. Le stelle gli sono fauste. Alla diana egli scorge di nuovo la terra, avvista la riva di Grado. Allora getta il suo primo grido, il saluto del risveglio, il richiamo del gallo. Chiara è la voce, e aumenta con la luce. È la novissima giovinezza d′Italia che saluta il giorno, temprata nel suo mare. S’ode la voce su la spiaggia latina, nel vecchio porto dei Patriarchi, nelle acque gradate. Allora la sorte a tante prove così crude aggiunge un’ultima prova, la più cruda. Alla voce di soccorso ripetuta, escono senza indugio un battello a elica e una piccola barca lagunare, un topo da pesca; e si mettono alla ricerca del naufrago. Ma il capo cannoniere che guida il battello, quando è sul punto di scoprire il nuotatore, scorge un velivolo austriaco che traversa il golfo da Trieste volando verso Grado. Il rombo del motore impedisce di riudire la voce sottovento.

Egli tralascia la ricerca e ritorna nel porto, sotto la minaccia del nemico aereo. Il naufrago distante lo vede coi suoi occhi scomparire. Dopo la sedicesima ora di resistenza inumana, quando pare che il suo patimento sia per finire, ecco che egli deve chiedere al suo cuore un nuovo sforzo, il più difficile! Resiste anche alla disperazione. Aspetta che il velivolo passi, che il rombo si dilegui; e ricomincia il suo clamore. Il battello esce di nuovo; fa rotta ad ostro, verso l′origine della voce; avvista finalmente l′uomo, in vicinanza del gavitello che è posto al largo. Il capo cannoniere s′alza in piedi e grida di lontano al nuotatore: « Viva l′Italia!».

Vietri, che vuol dire ardore, si leva con tutto il petto fuori dell′acqua e risponde con tutta la possa dei suoi polmoni: « Viva l′Italia! ». Quando il battello gli è vicino, egli lo raggiunge con due bracciate; poi, senz’aiuto, pontando le braccia, sale a bordo. Respira; sorride; chiede da bere. Gli uomini del battello sono confusi: non hanno portato né acqua né cordiale. Uno gli offre una sigaretta, peritoso. Egli franco la prende, l′accende, tira qualche boccata di fumo, con gli occhi socchiusi, con un′aria di contentezza infantile, come se riassaporasse la vita di bordo, come se ritrovasse il primo tra i piaceri del marinaio.

Sbarcato, condotto all’infermeria, non perde mai le forze, non si lascia mai vincere dal malessere e dalla stanchezza. Conserva la sua disciplina in ogni atto, in ogni motto, come – dopo sedici ore di mare –  la sua pelle serba il buon colore di frumento e la ferma grana, conciata all’uso nostro, all’uso d’Italia, non con la vallonea spenta nell’acqua di mortella, ma col sale e col sole. Quando nomina la sua nave perduta, quando parla del suo comandante e dei suoi compagni rimasti nel fondo sepolti, quando apprende che nessuno è giunto in salvo, di quelli esciti con lui dal portello di prua, il dolore lo stringe: un dolore senza lacrime, un dolore d’eroe, che par gli intagli quel dolce volto con uno scalpello più severo. Resta mutolo e fisso, col capo reclinato. L’acqua salsa gli cola dall’orecchio giù per l’omero nudo.”

 

            Il Comandante Giovannini era stato decorato, alla memoria, di una medaglia d’argento al Valor Militare.“
            Anche al sottocapo torpediniere Vietri il Re Vittorio Emanuele III, con motu proprio concesse , con decreto del 7 novembre 1915, la Medaglia d’Argento al Valor Militare con la seguente motivazione:

 

            “Per il coraggio contenuto in occasione della perdita del sommergibile su cui era imbarcato, prestando soccorso ad altri naufraghi e conservando sempre calma, fermezza e coraggio, finché dopo aver nuotato per oltre 16 ore riuscì finalmente a salvarsi sulla costa nazionale, mentre gli sarebbe riuscito assai più facile raggiungere la costa nemica, ciò che non volle per non essere fatto prigioniero”.

            Ritornato alla vita civile aveva sposato la nota artista teatrale Luisella VIVIANI, sorella del più noto Raffaele. Si era dedicato all’attività artistica della moglie ed era divenuto impresario teatrale e gestore tra gli altri, del teatro Umberto di Avellino. Il ricordo del  sommergibile “JALEA era rimasto così profondamente impresso nell’amina di Vietri  che impose il suo nome alla propria figliola, tramandando così , nel tempo il nome del suo battello. Cosa avrà provato il cuore del vecchio Vietri, ogni volta che chiamava per nome la sua figliola!

            Arturo Vietri morì a Napoli l’8 novembre 1955.

            Trentanove anni dopo, veniva recuperato lo scafo e con esso i resti dei dodici marinai rimasti intrappolati sul fondo del mare. Di quel recupero resta testimonianza in due brevi filmati conservati dall’Istituto Luce.
            Già nel 1953 il relitto si trovava in acque italiane ormai da tempo. A occuparsene fu un uomo di grandi capacità tecniche, ma anche spessore morale, il capitano Elvino Meriggioli, esperto in recuperi navali. Il relitto sarebbe dovuto finire in bacino a Trieste, ancora però in mano al governo alleato e in preda a fortissime tensioni.
            La zona A di Trieste viveva gli ultimi momenti di negata italianità e, l’idea di svolgere in quella città martire le onoranze ai caduti dello “Jalea”, sembrava una legittima aspirazione, ma era piovuto inflessibile il divieto dell’autorità militare inglese del governo provvisorio.
            Se ne registrarono i malumori italiani anche nell’aula di Montecitorio: “Il generale inglese carceriere di Trieste vieta onori militari ai morti del sommergibile “Jalea”, periti nell’esercizio del loro dovere combattendo a fianco degli inglesi nella grande guerra 1915-18 per la cosiddetta libertà di Europa e riemersi alla luce del sole proprio ora, per fatale volontà del destino che si leva per ammonimento e vergogna agli uomini”.
            Per evitare di accendere la miccia in quella che era una vera e propria polveriera i resti dello “Jalea” vennero dirottati a Monfalcone, dove, nel bacino galleggiante del cantiere navale, l’8 maggio del 1954 iniziarono le operazioni di disinnesco dei siluri, apertura dei varchi d’accesso e recupero delle salme. Il 24 maggio 1954 i tronconi del sommergibile vennero portati a terra per la successiva demolizione, mentre il 6 giugno  1954 il duomo di Sant’Ambrogio fu teatro delle solenni onoranze funebri.
            Nella cripta dedicata alla terza Armata nella parte bassa della chiesa di Sant’Ambrogio a Monfalcone, le dodici cassettine con i resti dell’equipaggio dello “Jalea”, ricoperte del tricolore della Marina, erano state allineate ed esposte ininterrottamente per 24 ore all’omaggio commosso di una folla immensa di cittadini, reduci e patrioti giuliano-dalmati.
            Trasferite in chiesa e collocate su di un solenne catafalco, ricoperto da un drappo azzurro, che si stagliava sullo sfondo dell’altare maggiore, erano contornate da una siepe di più di cento bandiere, con i gonfaloni di Trieste, Gorizia, Grado, Monfalcone e Ronchi dei Legionari, ed i vessilli di tutte le città istriane.
            A lato del presbiterio i numerosi familiari dei caduti e, altero e solenne, l’unico superstite dello “Jalea”, Arturo VIETRI, con sul petto appuntata la Medaglia d’Argento al Valor Militare e col cuore e la mente al ricordo dei naufraghi inghiottiti dal mare la sera del 17 agosto 1915.

            Sul feretro del Comandante Giovannini, la Medaglia d’Oro al Valore Militare Spartaco SCHERGAT, il sommozzatore che aveva affondato ad Alessandria d’Egitto la “Queen Elizabeth”, aveva orgogliosamente deposto, dopo averla trionfalmente sventolata, la bandiera con il nastro dell’Associazione combattenti di Capodistria, portata a Monfalcone nascosta sotto le vesti di una giovane profuga.
            Nel bacino di Ponzano, lo scafo dello “Jalea” era stato intanto demolito e niente più restava di questo glorioso sommergibile della prima guerra mondiale, solo piccoli cimeli si erano salvati: una parte della catena, la testata di un siluro e la targhetta bronzea delle officine Fiat-San Giorgio di La Spezia

            Nel Sacrario di Redipuglia, al 22° scalone, i resti sono stati tumulati e finalmente anch’essi ricongiunti al compagno d’arme Giuseppe Martignoni, ogni sera le campane della Cappella diffondono nell’aere cento chiari rintocchi che, all’unisono con i centomila, rinnovano il sacrificio e il perenne giuramento all’Italia. PRESENTE.

«Ogni rintocco susciti un ricordo» «ogni ricordo susciti una preghiera»

            All’ingresso del parco della Rimembranza a Monfalcone, nel 2012, è stato eretto un cippo, che ricorda l’Equipaggio e i Prodi che si sono adoperati per il suo recupero.

[1] Dal Forum di “Cimeetrincee” –La tragedia del r.s. JALEA

[2] Da un art. di Franco Marchiori “L’affondamento del regio sommergibile JALEA il 17 agosto 1915

SCHEMA DELL’AFFONDAMENTO DEL SOMMERGIBILE “IALEA”

  1. BIBLIOGRAFIA
  • Gustavo CAIZZI “Regio Sommergibile JALEA “ Vento del Ricordo… L’orto della cultura;
  • Riccardo CESCO TOMASELLI “Le avventure eroiche 1915 -1936” La fine del smg “JALEA”;
  • Andrea MASSARO e A. MONTEFUSCO “ Strade e Piazze di Avellino” edit. Città di Avellino;
  • Giorgio GIORGERINI “La guerra italiana sul mare” Le scie – Mondadori